Teatro

Wilson e l'estetica della follia

Wilson e l'estetica della follia

In anteprima a Spoleto l'ultimo lavoro di Bob Wilson, con le memorie e le ossessioni di uno dei più grandi artisti del Novecento.

Quando nel 1918 Vaslav Nijinski – leggendario ballerino russo che all'inizio del Novecento raggiunse una fama e un'ammirazione planetaria – cominciò a scrivere i suoi diari, la malattia mentale gli aveva già vulnerato lo spirito e il rapporto col mondo. Il giovane danzatore aveva appena 28 anni, e al declino dell'artista si accompagnava l'espansione interiore di un universo visionario e minaccioso. L’ondivago rapporto d'amore con Djaghilev, suo impresario e scopritore, aveva circoscritto la parte più esaltante della sua carriera, per poi cedere ad un matrimonio incolore con un’ammiratrice ungherese, la contessa de Pulszky. «Mia moglie è una stella che non risplende», annotò malinconicamente Nijinski fra le sue pagine private.

Ispirato da questi diari, che non soddisfano una spinta poetica ma l'esigenza terapeutica di tracciare le traiettorie della mente, Robert Wilson costruisce con raffinata inventiva una scena cangiante, estetizzando le turbolenze dello spirito e le percezioni aberrate dei sensi in un lavoro di geometrica eleganza. La scelta di Mikhail Baryshnikov – favolosa étoile internazionale della danza per almeno due decenni – come unico protagonista dell'opera, carica di evidenti risonanze il personaggio che agisce sulla scena.

Letter to a man è una sequenza di quadri chiusi che rende in forma visuale alcuni pensieri liberamente estratti dai diari, sovrapponendo immagini leggibili ad elementi più allusivi e oscuri. Ciascun quadro è didascalizzato dal frammento testuale da cui si origina, recitato da una coppia di voci registrate che alternano russo e inglese, lingua delle origini e lingua della cittadinanza adulta per l'attore in scena; una scelta che in qualche modo evoca il bilinguismo di Nijinski, la mescolanza di russo e polacco con cui sono redatti i diari.

La reiterazione di alcune frasi isolate restituisce sul piano concettuale l’andamento ossessivo di una psiche sofferente; ma al tempo stesso la ripetizione variata di certe unità sintattiche ripercorre uno stilema tipico della musica minimalista, ossia l’accumulazione ribattuta di una cellula espressiva che induce quasi una sospensione temporanea del senso. Non è superfluo ricordare che nel 1975 Wilson fu autore con Philip Glass dell’opera Einstein on the beach, straordinario lavoro minimalista anch’esso organizzato in quadri indipendenti, che segnò incisivamente l’esperienza scenica dell’epoca.

Nonostante la prevalenza di un testo che racconta l’inquietudine e la disillusione, la resa drammaturgica è essenzialmente priva di pathos e dotata anzi di una certa armonia estetica e ritmica, di gusto iconografico pop; nondimeno la maggior parte delle scene è interrotta da uno schiocco secco e improvviso simile a un colpo di frusta, che attraversa come un lampo mentale la visione della scena. L’incongruità di alcune sequenze sonore, come di certi elementi scenografici o di certe prospettive ambigue, è allora una chiave semiotica che marca la distanza fra la realtà e la sua percezione contraffatta.

La notevole presenza scenica di Baryshnikov alimenta, come già annotato, la suggestione di questo lavoro. Dopo un’ora e mezza di spettacolo il teatro Caio Melisso si riempie di un lungo e sonoro applauso; che non è un semplice omaggio al mito vivente, ma il segnale di pieno apprezzamento per uno dei lavori migliori di questa edizione del Festival.